Tantissime fonti più che autorevoli ci dicono di una crisi diffusa della salute mentale a livello globale. Oltre alle fonti, c’è la fenomenologia intorno a noi e nelle vite di ciascuno di noi. E’ evidente che l’essere umano nel mondo contemporaneo stia facendo fatica più che mai a trovare pieno benessere, senso ed espressione delle proprie peculiarità.
In questo breve scritto sento utile “celebrare” i precisi indirizzi che, su questo fronte, come consulente e terapeuta mi guidano nell’azione quotidiana accanto alle persone, ai gruppi di lavoro, alle aziende e alle istituzioni contemporanee.
1. La salute è una. Mentale, fisica, sociale. Non conosco condizioni di disagio fisico che non abbiano ripercussioni psicologiche e sociali. Non conosco condizioni di disagio sociale che non abbiano ripercussioni psicologiche e fisiche. Non conosco condizioni di disagio psicologico che non abbiano ripercussioni fisiche e sociali.
2. La salute mentale in quanto non solo assenza di malessere ma condizione di benessere richiede non solo di “curare i malati” ma soprattutto di non ammalare i sani.
3. La salute mentale è un #benecomune, e come tale da affrontare e gestire come un patrimonio collettivo dell’umanità. La salute non può che essere collettiva, primariamente collettiva. Ovvio che arrivi ad espressioni (anche e soprattutto) individuali ma credo la matrice di significati e di forze da cui origina sia sempre plurale, collettiva, relazionale. Non c’è disagio mentale che non sia, primariamente, collettivo. Il singolo può essere portatore del sintomo ma non ci può essere persona malata in mezzo a tutte persone sane. O, meglio ancora, una persona malata in un contesto sano. Ci sono sistemi relazionali ed organizzativi sostenibili in cui è più difficile che i singoli si trovino a manifestare sintomi di sofferenza psicologica e sistemi relazionali ed organizzativi in-sostenibili in cui circolano forme diverse di veleno che nel breve o nel lungo ammalano qualcuno o molti. Ha poco senso parlare di soggetti sani e soggetti malati. Ha molto senso parlare di sistemi inter-soggettivi e trans-soggettivi ammorbanti e sistemi inter-soggettivi e trans-soggettivi rispettosi dell’umano e fecondi di vita.
4. Per chi, come noi di ISMO, si occupa di sviluppo dei sistemi umani e soggetti individuali, non c’è intervento che non sia collettivo e sistemico. Diversamente, il rischio è di patologizzare il singolo per sanare il collettivo. Ma non funziona così. Il sintomo dell’ “uno” è informazione sullo stato dei “tanti”. Va sostenuto, certo, il singolo. Il suo disagio non va però messo a tacere a suon di sportelli psicologici, coaching e/o farmaci. Alla sofferenza individuale va reso onore trasformandola in qualcosa di utile per il sistema più ampio cui il singolo appartiene. Importante, per questo motivo, ascoltarla e usarla per fare diagnosi sistemiche e interventi dal respiro sempre collettivo.
5. La salute mentale è un impegno e una sfida che le organizzazioni del nostro tempo devono imbracciare più dei CPS di provincia o dei reparti di Psichiatria. Se si arriva in reparto o nello studio di uno psicoterapeuta è perché qualcosa prima, qualcosa di primario, non ha funzionato come avrebbe potuto: le famiglie, i quartieri, le aziende, le istituzioni, le scuole, in generale le strutture socio-organizzative in cui siamo cresciuti, viviamo, transitiamo, lavoriamo. Il Covid ha prodotti infiniti traumi individuali. Allo stesso tempo, ha traumatizzato il sistema globale e con esso tantissime realtà collettive che tuttora hanno a che fare con le ricadute di quella “frattura”. Abbiamo quindi oggi a che fare non solo con sistemi organizzati che hanno la sfida di non ammalare le persone sacrificandole sull’altare del business, ma con sistemi organizzati essi stessi traumatizzati. Ecco, questi traumi del corpo collettivo rischiano di non essere visti, né esplorati. Di scomparire dai radar e uscire dalle diagnosi e quindi dagli interventi. Si punta così sulle manifestazioni più evidenti ma non si fa che “mettere pezze”. Un sistema collettiva, un’azienda traumatizzata non può che generare traumi a sua volta finché non si concede un’elaborazione del trauma. Insomma, è questa un’epoca in cui provare a fare con i sistemi collettivi ciò che da sempre è stato dedicato ai singoli individui.
6. La psicologia è utile che entri sempre di più nei nostri contesti lavorativi quotidiani, in qualunque settore e a qualunque livello. “Psicologia” non per psicologizzare tutto o diventare tutti psicologi, ma per riappropriarci di quanto più prezioso abbiamo: la nostra umanità. Sì perché se psiche vuol dire respiro, non c’è nulla per noi di più essenziale alla vita che non sia il respiro. Lo so, c’è da accordarci su cosa intendiamo per “psicologia”. Accordiamoci. Perché scommetto tutto che la strada del prossimo futuro è questa. I sistemi umani che siano capaci di “mettersi sul lettino” e praticare una quotidiana clinica di se stessi alla ricerca non solo di un lavorare più efficace (ergon) ma anche di un respirare insieme più vitale (psiche).
7. Il soggetto singolo non si ammala. Non credo in questa prospettiva. Trovo più fecondo vedere le cose da un altro punto di vista. I sistemi ammalano, le relazioni ammalano: la relazione con l’altro (sia esso soggetto singolo o soggetto collettivo, soggetto interno o soggetto esterno), la relazione con gli altri, la relazione con il lavoro. Il singolo “urla” ma il suo disagio è sintomo di dinamiche disfunzionali plurali e sempre collettive.
«E’ falso dire: Io penso: si dovrebbe dire io sono pensato.
– Scusi il gioco di parole.
IO è un altro.”
A. Rimbaud